venerdì 16 marzo 2012

The Artist (Michel Hazanavicius, 2011)



Da ben prima della Notte degli Oscar, che come da cattiva abitudine tende negli ultimi anni a premiare il "caso cinematografico" (Il discorso del re, Slumdog Millionaire) più che l'opera di per sè, si è fatto un gran parlare di The Artist. Operazione veramente curiosa, quella di girare un film muto e in bianco e nero (in realtà è stato girato a colori e successivamente riconvertito; inoltre la frequenza dei fotogrammi è più bassa, per rievocare maggiormente l'effetto delle vecchie macchine da ripresa) in anno Domini 2012. Un rischio bello grosso, data quella che teoricamente doveva essere una difficile digeribilità da parte del grande pubblico. E invece gli spettatori di mezzo mondo, va detto, forse portati dall'eco mediatico che il caso di questo film ha generato, ne hanno decretato un successo anche monetario. Viene da chiedersi se, al di là delle statuette portate a casa (ingiustamente per chi scrive, dal momento che Malick avrebbe dovuto comunque vincere tutto col suo grandioso "The Tree of Life") o degli incassi registrati, The Artist sia un film così valido, e penso che la risposta non possa che essere affermativa.

Il film mette subito in chiaro la volontà di non volersi nascondere dietro al pretesto del muto-senza-colori, ed infatti Hazanavicius costruisce con grande misura una struttura in grado di reggersi sulle proprie gambe, quasi a prescindere dall'artificio retrò. Il racconto metacinematografico non è solo una strizzata d'occhio agli appassionati, ma un geniale modo di accogliere un qualsiasi spettatore all'interno del mondo del muto, che non appare più enormemente distante. Impossibile non citare, proprio perchè esule dal contesto a cui ormai siamo abituati ad una buona metà del film, è la scena onirica in cui il sogno di Valentin viene invaso dal sonoro, esattamente come la sua vita, costretta a piegarsi all'avvento di un cinema che è riuscito a dotarsi di voci, di suoni e rumori.

Ma prima ancora che trovate ed artifici, come si è già detto, The Artist è un film sul cinema: un omaggio non cerebrale ma che viene direttamente dal cuore, e forse proprio per questo vince tutto. Non c'è bisogno di giochi intellettuali e citazionismi a tutti i costi (anche se l'ammiccamento a Vertigo c'ha fatto sorridere...), perchè siamo davanti ad un'opera fatta degli ingredienti più sani e consueti che il cinema possa adottare: la risata (sincera, semplice e proprio per questo liberissima) e la commozione (non cercata con insistenza, ma spontanea perchè...non potrebbe essere altrimenti). Eppure a fare la differenza tra un film pretestuoso ed uno riuscito, in questo caso, è la mano di Hazanavicius, capaci di trovare gli equilibri giusti senza ricadere in una mera operazione nostalgica.
Un'altra delle grandi sfide del regista era quella di indirizzare un'interpretazione mastodontica come quella offerta da
Jean Dujardin, lui sì meritatamente premiato dall'Academy. L'attore catalizza gran parte dell'attenzione, ma non è ingombrante al punto da oscurare il resto degli attori e la pellicola stessa (esito visto purtroppo in tanti film degli ultimi anni con ambizioni da Oscar): incarna semplicemente l'anima di The Artist, senza soffocarlo ma anzi dandogli vita attraverso di sè, con la genuinità e la capacità di stupire che ci fanno innamorare ancora oggi del cinema, come fosse la prima volta che assistiamo ad una proiezione.
In definitiva ci si può dire irritati, per l'eccessiva celebrazione, dopo la pioggia di Oscar, che questo film ha ricevuto. Ma non possiamo parlare di The Artist come un film brutto, perchè intrattiene dal primo all'ultimo minuto, regala un omaggio sentitissimo e, cosa più importante, emozioni vere. Non possiamo parlare di The Artist come un film poco riuscito, perchè ci mette l'anima, conquista una propria dignità artistica assoluta, e ci racconta una storia; la storia, quella che ci ha permesso ci venissero raccontate tutte le altre: la storia di come il cinema muto divenne sonoro, e dell'amore, dell'orgoglio e dell'ossessione degli uomini che si trovarono nel bel mezzo del cambiamento.

giovedì 7 aprile 2011

Boris - Il Film (Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, 2011)




Inutile dirlo: quando le voci su un film di Boris hanno cominciato a venir fuori, tutti ce la siamo fatta sotto per l'esaltazione. L'attesa è cresciuta a dismisura un po' semplicemente per il culto che questa serie ha saputo generare attorno a sè, un po' per l'amaro in bocca lasciato dalla terza stagione (realizzata senza dubbio in maniera migliore delle due precedenti, forse solo un po' carente in quanto a mere risate, oltre al davvero ingiustificabile finale).


Ed è proprio da ciò che di buono Boris 3 aveva fatto che questo film riparte. Innanzitutto dalla satira che, fattasi sempre più nera e disillusa, per deridere il cinema italiano si prende gioco dell'Italia e viceversa, a volte in maniera sottile, a volte meno. Ma la grande continuità con la serie è percebile soprattutto nel proseguo della storyline di Renè Ferretti, sempre più al centro della serie come protagonista, e meno come personaggio principale di un racconto (che rimane comunque) corale. Il solo Renè rimane a fare da baluardo di una consapevolezza che, pur dovendo sottostare a tanti compromessi (perchè d'arte, nel nostro paese, non ci puoi campare), continua a resistere e a lottare sotto traccia, tesa verso un'opera finalmente apprezzabile che non arriverà mai. Volendo estendere questo spirito di continuità all'opera tutta, per individuare il maggior pregio di Boris si potrebbe arrivare a dire che non c'è alcuna differenza tra il film e la serie. Nel senso che entrambi compiono il loro dovere egregiamente, pur parlando linguaggi in realtà così distanti (per questo lo sbarco della serie al cinema poteva destare qualche preoccupazione, puntualmente fugata), completandosi egregiamente a vicenda, restituendo tutto l'apparato della serie nel film in una specie di "stagione condensata", dove ritroviamo quasi tutti i personaggi ma senza cameo forzati o apparizioni insensate; tutto è calibrato alla perfezione grazie ad un cast sempre più affiatato e coeso ma soprattutto ad una regia che, affidata alle stesse mani che curano la sceneggiatura, finisce per diventare strumento della scrittura stessa, formando un connubbio imprevedibile. Connubbio frutto soprattutto del talento smisurato delle persone coinvolte, unito alla loro capacità di capire le responsabilità che questo film si portava sulle spalle (per via del culto di cui sopra), ma anche di sfruttare la più grande opportunità che un'operazione del genere poteva portare: quella di spiegare che il cinema italiano vive ancora, seppur di momenti sporadici, e che non è con l'ostinata seriosità e l'impegno civile/sociale a tutti i costi che si contrasta l'imperante burinaggine del cinema italiano; si tratta, come sempre, di individuare la giusta via di mezzo, tra la commedia caciarona e la satira velenosa. E Boris c'è riuscito, ancora una volta, alla grande.

Genio!

mercoledì 23 marzo 2011

Damir Ivic - Storia Ragionata Dell'Hip-Hop Italiano (2010)



Libro totale che andrebbe letto sia da appassionati dell'hip-hop italiano, per rispolverare vecchi ricordi e comprendere meglio vicende e dischi del passato, che da completi novizi, che avrebbero così modo di entrare in contatto con le origini di un genere così in voga anche da noi, attualmente. Damir Ivic, storica penna di Aelle, del primo Groove e del Mucchio Selvaggio, si lancia in un'operazione ciclopica quanto fondamentale: tracciare una storiografia, forse non completa ma almeno esauriente, dell'hip-hop italiano, dalle origini ad oggi. L'approccio è assolutamente aperto, questo libro può essere letto davvero da chiunque, grazie anche all'ampia premessa in cui vengono forniti concetti e termini base, e le origini del genere (quelle slegate dal nostro paese) vengono narrate con quanta fedeltà è possibile fare. Il documento che ci troviamo tra le mani è di inestimabile valore per i motivi più svariati, ma penso che il merito più grande sia quello di raccontare per intero i momenti cruciali della storia del rap in Italia (vale a dire il periodo delle posse, la successiva esplosione del purismo, e la decadenza dei primi anni Duemila), riconoscendo i meriti ma anche le colpe di un po' tutti i membri della scena, rintracciando nell'eccessivo attaccamento al purismo il cancro forse più grande che ha pian piano finito per logorare dalle fondamenta il genere in Italia. Altro grande pregio di questo libro è quello di mettere in risalto le più grandi e variegate sfaccettature che l'hip-hop può assumere, nel bene e nel male, dimostrandosi il genere-contraddizione per eccellenza, dando nello stesso tempo tante vie di uscita e modi di espressione quanti sono i limiti e le restrizioni (auto)imposte. Con l'esperienza e la conoscenza di uno che la scena l'ha vista nascere, crescere, disintegrarsi da sè per poi raccoglierne i cocci, Damir Ivic pone quindi un autentico, importante mattone nella ricostruzione di un genere (e di una cultura, perchè l'hip-hop anche questo è, ed è bene non dimenticarselo) che, vuoi per la saturazione del mercato discografico, vuoi per la pochezza dei modelli, avrebbe solo bisogno di imparare dagli errori del proprio passato per assumere l'approccio giusto.

giovedì 17 marzo 2011

Rango (Gore Verbinski, 2011)



A guardarlo da lontano, leggendone e vedendone le prime immagini, Rango appariva come un'incontestabile schifezza. Ma zitto zitto quatto quatto, il film che ha rappresentato l'esordio nel cinema d'animazione da parte di Gore Verbinski, ha ricevuto fin da subito critiche positive, esaltanti, entusiaste. Certo, se si è partiti dall'estremo per cui questo film doveva fare per forza cagare, non si può poi di punto in bianco decidere di urlare al capolavoro. Un po' per una questione di coerenza, e un po' perchè Rango non è un capolavoro. Ma dico io: fare film d'animazione, al giorno d'oggi, dev'essere uno dei mestieri più difficili del mondo. Da quando la Pixar si è imposta come casa regina del settore, non ha più mollato il trono (e i pochi Oscar non dati a film Pixar sono comunque state scelte combattute, Shrek per esempio ha dovuto battere la concorrenza di una pietra miliare come Monster Inc.), ed è quindi ovvio come il paragone riesca ingeneroso per chiunque. Certo, non aiuta il fatto che la maggior parte delle altre case di produzione (Dreamworks in testa, se si esclude il già citato Shrek e le recenti sorprese di Kung Fu Panda e How To Train Your Dragon) abbia investito in un franchise sbagliato dopo l'altro, annacquando il mercato di prodotti brutti non solo al confronto coi cugini pixariani, ma orrendi già di per sè.
Ecco quindi che, in questa contrapposizione tra Disney Pixar e resto del mondo, si insinua per una volta una realtà leggermente esterna, che sa di boccata d'aria in un senso preciso: come per il cinema normale, ogni tanto c'è bisogno di qualcosa di medio tendente al buono, ben fatto ma che non faccia gridare al miracolo (anche per avere la possibilità di poterlo poi riconoscere, il miracolo, quando arriva). Rango è così, e anche un bel po' di più. Eggià, perchè parlarne in questi termini appare comunque riduttivo: Rango è un film ambizioso, che tranne forse per il finale un po' scricchiolante, mantiene candidamente le non banali aspettative create.
La storia di un camaleonte d'acquario, ritrovatosi d'improvviso in mezzo al deserto, che finisce per diventare l'eroe straniero senza nome (in un perfetto atto di mimetismo camaleontico, appunto) di una cittadina west che ne ha disperatamente bisogno, si snoda tra due idee in apparenza inconciliabili di western: quella a schema più classico, fatta di mezzogiorni di fuoco, saloon e sceriffi, con quella più jimjarmuschana (qualcuno ricorda Dead Man?) dove il deserto è un luogo mortale dove trovare se stessi, alla fine di un'esperienza quasi mistica. Le citazioni illustri si sprecano, e se il riferimento più imponente è sempre quello di Sergio Leone (anche nella concezione di western fatto non di spazi ma di volti, ben rappresentata dalla corposa introduzione di personaggi secondari, adorabili caratteri che nel loro piccolo sarebbero già dei mini-cult, se non ripercorressero anch'essi i topoi del western), da nerd non ho potuto fare a meno di notare gli occhiolini a Ritorno al Futuro 3 e Paura e Delirio a Las Vegas. Nonostante i rimandi, oltre alla spiccata tendenza metacinematografica, Rango è però un film che sa stare sulle sue gambe, è capace di intrattenere distribuendo abilmente azione e risate; e la mano di Verbinski si vede soprattutto in questo, nella maestria con cui vengono dosati gli elementi che avevano reso un caso il suo primo Pirati dei Caraibi. A pochi mesi dall'uscita del primo episodio della saga Disney dopo la trilogia di Verbinski, credo che possiamo tutti renderci conto di quanto fosse esigua la sua colpa, e quanto fosse invece macroscopica quella dell'odiato produttore Jerry Bruckheimer, nello sputtanamento di un fenomeno che negli anni è già diventato simbolo del franchise super sfruttato a suon di sequel. Con questa piccola perla del cinema d'animazione non-pixariano Verbinski si prende quindi la sua rivincita, dimostrando ancora una volta il suo talento in un'impresa ormai non più così atipica, ma che ha comunque del curioso: negli anni il fenomeno di quelli che da noi vengono ancora volgarmente definiti cartoni animati, è stato sdoganato dagli studios appositi, tanto che molti registi non interni all'ambiente hanno voluto cimentarsi (l'ultimo caso è stato quello di Wes Anderson). Ad affacciarsi a questa realtà è stato stavolta un colosso degli effetti speciale, la Industrial Light & Magic di George Lucas, incredibilmente al suo primo film d'animazione. L'esperimento può dirsi riuscito in pieno, quindi perchè non proseguire?

domenica 20 febbraio 2011

Milkshake: The Legend of Blake Griffin


Tra i tanti motivi per cui mi piace il basket, soprattutto quello americano, c'è la particolare capacità di questo sport di riscrivere la propria storia ogni notte. Le statistiche, fattore così importante, sono i numeri più volatili che esistano, nuovi record possono essere stabiliti in ogni momento. E così come a meritarsi ogni sera la gloria di stampa e pubblico ci sono le stelle più brillanti del firmamento cestistico, capita che per una sera anche l'ultimo dei panchinari possa imbroccare la serata giusta e attirare su di sè, le luci della ribalta, cancellando almeno per una notte l'immagine di perdente che magari si porta dietro. Tutto può cambiare in un secondo. E ieri sera (ieri notte, per noi italiani), durante il sabato dell'All Star Game, qualcosa è cambiato, ed è nata una nuova stella: Blake Griffin. Intendiamoci, in realtà il nome del rookie in forza ai Clippers è sulla bocca di tutti da mesi, anche da un paio d'anni. Arrivato a furor di popolo da Oklahoma, viene scelto come prima pick assoluta al primo giro dalla franchigia sfigata di Los Angeles, designato come uomo che dovrà risollevarne le sorti. Ma i Clippers sono i Clippers mica per niente, e dopo essere stato nominato MVP della Summer League, Griffin si procura una frattura da stress alla rotula atterrando da una schiacciata, infortunio per il quale non vorrebbe farsi operare; a Gennaio 2010 è però costretto ad andare sotto i ferri, perdendo di fatto tutta la stagione 2009-2010 e rinviando alla successiva il suo debutto in NBA. Ma nel tempo trascorso nella riabilitazione, il ragazzo non resta certo con le mani in mano, e lavora strenuamente per migliorarsi dal punto di vista tecnico, lui già atleta straordinario ma anche giocatore consolidato. Finalmente, arriva il momento di giocare tra i grandi, e le cifre sembrano subito dare ragione a tutti quelli che tanto a lungo l'hanno atteso. Ma il primo, vero botto, arriva il 20 Novembre: in una partita comunque persa dai suoi Clippers (ebbè, che vi credevate?), il nostro mette insieme 44 punti, 15 rimbalzi e 7 assist, ma soprattutto illuminando per la prima volta lo Staples Center con i suoi highlights: una poster dunk su Mozgov (già entrata nella leggenda) prima, ed un fastbreak in palleggio con perno e schiacciata in testa al nostro inerme Danilo Gallinari.


Da qui in poi, è tutto un susseguirsi di schiacciate incredibili, alley oop ai confini della realtà (spesso i suoi compagni gli passano delle pessime palle, ma lui riesce a inchiodarle ugualmente) e highlights pregevolissimi quali un 360 layup che, finchè lo fa J.R. Smith va bene, ma con uno della stazza di Blake come la mettiamo? Il 17 Gennaio arriva un'altra grande prova di forza, quando l'ormai più chiacchierato schiacciatore della lega, già certo partecipante dello Slam Dunk Contest, dimostra di non essere solo uno schiacciatore di prima grandezza, ma anche un giocatore completissimo: durante un match con gli Indiana Pacers, oltre a catturare 14 rimbalzi per la solita doppia doppia (testa a testa con Kevin Love per il titolo di leader della lega in questa statistica), mette a segno di 47 punti, dei quali solo due arrivati da una schiacciata; è una prova maiuscola che mette finalmente in luce il giocatore nella sua completezza, eccelso giocatore di post con a disposizione power moves spalle a canestro sorprendenti per un secondo anno, ma anche un tiro più che affidabile dalla media e, perchè no, anche dalla lunga distanza. L'hype intorno al prodotto di Oklahoma è tale che i coach della Western Conference lo votano inserendolo tra le riserve dell'Ovest per il match dell'All Star Game: non accadeva dai tempi di Duncan, che un rookie partecipasse alla partita della domenica.
Ed eccoci quindi arrivati al weekend dell'All Star Game, in cui la stella dei Clippers è l'unico giocatore ad essere impegnato in tutti e tre i giorni. Si comincia il venerdì, con il consueto Rookie Game tra i migliori giocatori del primo contro i migliori del secondo, e nonostante a Blake venga concesso un minutaggio limitato (nell'ottica di risparmiarlo per gli impegni che lo attendono per tutto il fine-settimana), è proprio a lui (e all'assistman John Wall, poi nominato MVP della gara) che si deve l'highlight migliore della serata, un bounce alley oop della point guard degli Wizards che Blake Griffin, come ci ha naturalmente abituati, schiaccia inesorabilmente a canestro in reverse.


Ma è ovviamente il sabato il momento della verità, perchè nonostante la completezza che abbiamo potuto ammirare in questa prima parte di regular season, ciò che più risalta agli occhi di tutti sono ovviamente le schiacciate, ed era quindi ovvio aspettarsi una grande performance da parte di Milkshake, come i blogger di Got'EmCoach lo hanno soprannominato. E l'attesa viene ripagata abbondantemente. Lo Slam Dunk non è mai una prova facile, soprattutto per la necessità di sorprendere con qualche invenzione particolare, compito che però Griffin sembra lasciare all'ispirato JaVale McGee, per buttarsi in una vera e propria opera di citazionismo cestistico, scorrendo i migliori annali del Dunk Contest e passando dal 360 alla schiacciata terminata col braccio dentro al canestro fino al gomito, come Vince Carter fece nella gara delle schiacciate del 2000, probabilmente la migliore di ogni tempo. Ma i concorrenti sembrano tenere il passo più che egregiamente, al punto che doverne eliminare subito due è un grosso dispiacere: Ibaka sfodera la schiacciata dalla linea del tiro libero, DeRozan mostra le doti più esplosive tra tutti i partecipanti raggiungendo sicuramente il livello più alto in quanto a bellezza estetica e McGee, da underdog designato, sbatte in faccia a tutti una performance leggendaria per fantasia, ma non meno per atletismo e armonia. In finale con la Snapping Turtle (altro soprannome affibbiato a Griffin per via dell'espressione molte volte assunta durante una schiacciata) ci arriva proprio il centro degli Washington Wizards, che sfodera il suo colpo migliore e lascia tutti senza fiato. Ma a quel punto scatta la magia: sul parquet vengono fatti entrare una Kia Optima e un coro gospel che si mette a intonare le note di I Believe I Can Fly, pezzo di R.Kelly che nella memoria di tutti vuol dire Space Jam. Tutto il pubblico, allo Staples Center e a casa, finisce per trovarsi in una specie di trance evocata dallo speaker-reverendo Kenny Smith. È un attimo, Baron Davis dal tettuccio aperto della macchina alza la palla e Blake Griffin, sorvolando il cofano, la schiaccia per entrare nella leggenda.


Una schiacciata non poi così difficile, hanno detto alcuni. E a ripensarci è forse vero, ma ciò che resta è il momento, il secondo in cui tutto il mondo, incredulo, si è fermato, prima che il Barone esplodesse in un urlo liberatorio e Spike Lee cominciasse a impazzire a bordocampo. Poco importa se forse, in un'ottica più indirizzata verso la creatività, il premio sarebbe dovuto andare nelle mani di McGee. La lega ha visto l'ascesa di Griffin, e agendo come l'azienda che ora di fatto è, non ha fatto altro che agevolarla, schierandosi forse per la prima volta in maniera così esplicita dalla parte di un suo giocatore, aggiungendo un altro importante mattone attorno all'aura mistica di The Quake, alimentata sicuramente dall'aver vinto quello che è stato a conti fatti uno degli Slam Dunk Contest più equilibrati, vari ed intrattenenti della storia dell'All Star Game. A questo punto la strada è tutta spianata per Griffin: certo gli hater aumentano già a dismisura, ma i sostenitori fanno altrettanto, e i Clippers sono ormai la seconda squadra di chiunque (oltre a Milkshake, non dimentichiamoci di Eric Gordon, DeAndre Jordan e, ovviamente, Baron Davis). Era dai tempi di LeBron che non si vedeva un rookie dall'impatto mediatico così forte, ma solo il futuro ci dirà quanto importante sarà stato l'arrivo nella NBA di questo re delle schiacciate. Il potenziale c'è, il tempo pure, so sky's the limit...

sabato 19 febbraio 2011

Black Swan (Darren Aronofsky, 2010)



Con Black Swan, viene a completarsi l'opera di redenzione intrapresa da Darren Aronofsky per farsi perdonare The Fountain, un film che se vi è piaciuto non vi voglio neanche parlare. Fare un film più riuscito di The Wrestler non era facile, ma il regista newyorkese ci riesce alla stragrande, con un progetto arditissimo che più di uno, forse non del tutto a torto, ha paragonato proprio alla sua precedente pellicola per la non eccessiva differenza tra le due "performance art" al centro delle due vicende. In Black Swan, Aronofsky ricrea una New York buia e inquietante, adibita a palco per l'esibizione di un cast insuperabile: da non trascurare le due spalle, la conturbante Mila Kunis e il Re dei facciadaculo Vincent Cassel, ma parliamo soprattutto di lei, Natalie Portman, che si porta già automaticamente a casa una statuetta non tanto per la trasfigurazione fisica e l'immedesimazione per la parte (già di per sè allucinanti), ma per la potenza con cui ha saputo incarnare tutte le nature di questo film. Film che di facce in effetti ne ha un bel po', due soprattutto: l'horror del soprannaturale (notevoli sono le implicazioni della psicologia) e l'ossessiva lotta per qualcosa che finisce per essere una lotta contro noi stessi, i nostri fantasmi e i nostri limiti. In entrambi gli aspetti, Aronofsky si dimostra maestro, dosando alla perfezione gli elementi nei vari casi cospargendo il film di riferimenti più o meno marcati, nonchè di una tensione sempre palpabile, che mantiene vivo l'interesse per l'aspetto horror senza dover compromettere un secondo della velenosa fragilità di questo film, lasciando sempre lo spettatore nel dubbio ma senza dargli alla fine la necessità di capire tutto ciò che gli è passato davanti agli occhi. Ma la bravura dell'Aronofsky regista sta soprattutto nel continuare il suo percorso cinematografico come ha sempre fatto, andando dietro ai personaggi ed entrandogli dentro al punto da non far percepire più quel che c'è intorno: ci sono solo Nina, le sue cicatrici e le sue ossessioni trasposte su un'altra persona, demone antagonista di un cigno bianco sul punto di spalancare le ali da un momento all'altro. La metamorfosi del personaggio segue un corso travagliato, che và di pari passo col parallelismo tra l'opera de Il Lago dei Cigni e le vicende dei personaggi, intrecciandosi dalla maestosa sequenza iniziale fino alla fine roboante, con la platea in piedi ad applaudire la sua beniamina. Uno dei film dell'anno, posto prenotato nella top ten già a febbraio.

giovedì 10 febbraio 2011

Donuts Are Forever



Cinque anni fa, il 10 Febbraio 2006, moriva James Dewitt Yancey, noto ai più come Jay Dee e successivamente J Dilla, uno dei più grandi e influenti produttori della storia della musica hip-hop. Per uno scherzo del destino, tre giorni prima, nel giorno del suo compleanno, era stato dato alle stampe il suo ultimo album, intitolato Donuts, composto interamente utilizzando un mini-studio portatile messo insieme affinchè James, afflitto dal 2004 da una grave forma di Lupus, potesse continuare a fare ciò che gli stava più a cuore: produrre musica. Si può dire che Jay incarnasse in vari modi l'anima più positiva dell'hip-hop, ed uno di questi era sicuramente l'amore sconfinato per la musica, che non l'ha abbandonato fino all'ultimo giorno.
Dopo aver cominciato a farsi notare nella scena americana underground con il suo gruppo, gli Slum Village (di cui farà parte fino al 2002), Jay Dee si guadagnò le luci della ribalta producendo una serie di singoloni per artisti affermati del panorama black americano dell'epoca, da Busta Rhymes (Woo-Hah!!) a Janet Jackson (Got 'Til It's Gone). Tra le collaborazioni più illustri del periodo annoveriamo però anche pilastri della Native Tongues come A Tribe Called Quest (Stressed Out) e De La Soul (Stakes Is High), realtà al picco della loro creatività artistica come i Pharcyde (che con Labcabincalifornia bissarono il successo di Bizzarre Ride II The Pharcyde grazie proprio ai singoli da lui prodotti, Drop e Runnin'), nonchè quella che diventerà poi per diverso tempo la sua famiglia: i Soulquarians, composti fra gli altri dai Roots e da Mos Def, Talib Kweli, D'Angelo, Erykah Badu e Common. Proprio con il rapper di Chicago si instaurerà un sodalizio artistico destinato a dare vita a uno degli migliori album rap dei cosiddetti anni zero: sto ovviamente parlando di Like Water For Chocolate, in cui i due toccano la vetta nell'unione della consciousness di Common con lo stile soulful di Dilla.



Chiusa la parentesi Soulquarians, Dilla inizia anche a distaccarsi dai suoi Slum Village, in cui prenderanno sempre più importanza altri membri come Baatin' (deceduto purtroppo anche lui, nel 2009) e eLZhi; in questo senso, Fantastic Vol. 2 (comunque una delle opere più significative dell'intera carriera del produttore di Detroit) chiude in maniera degna il ciclo, per aprire alla prima vera svolta della carriera di Jay. Nel 2001, infatti, pubblica il suo primo album solista, Welcome 2 Detroit, che pone le basi per quello che in futuro diventerà il suo trademark sound, e che influenzerà tutta una generazione di produttori della D-Town. Si va da campionamenti soul tutto sommato classici (anche se il taglio è tutto alla sua maniera), a suoni ruvidi e pestosi e break beats scatenati, inframezzati da escursioni sonore in generi veramente impensabili come l'elettronica, la samba o la musica africana. Tra i featuring, alcuni tra quelli che diventeranno i più importanti MC della new-new school, come Blu e il già citato eLZhi. A questo punto della sua carriera, forte di una street cred così solida, torna a spingere l'hip-hop dal basso, cominciando al tempo stesso le sperimentazioni che lo porteranno ad espandere in maniera decisa i confini del genere. Sempre nell'ottica di questa svolta, arriva la firma con la Stones Throw, etichetta che va affermandosi come la più prolifica del periodo, per quanto riguarda la scena rap underground americana. E subito nel 2003 arriva una combo micidiale di album, perchè nel giro di 12 mesi il nostro produce Ruff Draft (in cui spicca il capolavoro Nothing Like This), interamente prodotto e rappato da lui, ma soprattutto Champion Sound, collaborazione a quattro mani con Madlib, in cui ognuno produce le tracce su cui l'altro rapperà. Quel che ne esce fuori è un disco dalla potenza inaudita, che ancora oggi spiega benissimo come anche l'hip-hop coi controcoglioni possa aspirare ad essere suonata nei club per muovere i culi. In quanto ad emceeing, le carenze di entrambi non sono così marcate, per quanto ovvie (Jay è forse un poco meglio di Madlib, che però come Quasimoto si dimostrerà capace di ben altre prove), ma il tutto viene compensato da due produttori in stato di grazia, ispiratissimi. In particolare, J Dilla porta forse qui al massimo livello il suo lavoro sulle batterie che costituirà una delle sue più grosse eredità all'hip-hop. Proprio in quel periodo si inizia però a vociferare di problemi di salute che affliggerebbero Dilla, notevolmente calato di peso. Al ritorno dal tour in supporto a Champion Sound, il produttore di Detroit si sottopone ad alcuni esami, che confermano una grave forma di Lupus. Pur consapevole della sua grave condizione, James non si perde d'animo e continua a produrre collaborando con artisti del calibro di Pete Rock, uno dei suoi idoli di sempre. Ma la sua salute si aggrava, tanto da costringerlo a suonare ad alcune date europee seduto in sedia a rotelle. Passerà gli ultimi mesi della sua vita in ospedale, producendo fino all'ultimo giorno il suo ultimo capolavoro, uscito beffardamente il giorno prima della sua morte. Dal 2006 in poi, è tutto un susseguirsi di pubblicazioni postume, tributi vari e manifestazioni di affetto da parte di gente che l'ha conosciuto e ci ha lavorato (ormai di culto la copertina della rivista Scratch, per la quale i Roots si fecero fotografare con addosso delle t-shirt "J Dilla R.I.P.").


Ma notevole fu anche la battaglia legale scatenatasi in seguito alla morte dell'artista per la proprietà e la gestione dei diritti sulle sue opere compiute e non, su tutto il materiale non utilizzato in vita.


Talento irripetibile, dotato di una conoscenza della musica (black e non) sconfinata, iniziatore di quel tipo di rap ora dominante a Detroit e che vede in Black Milk il suo erede designato, ha rappresentato assieme a Madlib il modello di producer a cavallo tra il vecchio millennio e il nuovo per una quantità infinita di motivi. Primo fra tutti, la capacità di farsi attraversare da tutte le influenze assorbite e rimescolarle tutte, non tanto amalgamandole in un unico stile (operazione pregevole, ma non certo unica nella storia della musica), quanto tenendole tutte sullo stesso piano e dando sfogo ora ad una, ora all'altra, in un tripudio di suoni che indicano senza mezzi termini il futuro. Un genio dotato di una disarmante urgenza espressiva, che gli imponeva di sporcarsi le mani in tutto ciò che lo interessasse al fine di arricchire la sua tavolozza di colori. Con queste sue propensioni, era chiaramente destinato a costruire qualcosa di grande. Di più grande. Ma purtroppo una malattia ce l'ha portato via. Una morte tutto sommato silenziosa, rispetto a quelle a cui il rap ci ha abituato fin dagli albori. Ma forse proprio per questo ancor più significativa, data la risonanza emotiva che l'evento ha avuto nel mondo della musica. Forse è proprio questa scossa a dare l'idea della portata dell'opera di Dilla. Lui è stato la svolta, ora bisogna continuare seguendo la linea da lui tracciata. Perchè il futuro dell'hip-hop, signore e signori, sembra dover passare inevitabilmente per le strade di Detroit, dove un tempo camminava il genio che Common, in una commovente intervista, non si vergogna a definire il più grande produttore di tutti i tempi...